L’art. 572 del vigente Codice Penale disciplina il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, sanzionando chiunque maltratta:
- una persona della famiglia;
- un convivente;
- una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
La ratio della norma si rinviene nell’avvertita necessità di proteggere l’integrità psico-fisica di soggetti facenti parte di contesti familiari o para-familiari, persone vulnerabili che si trovano nell’incapacità di sottrarsi alla situazione di abuso.
Indice
1. La condotta.
Sono molteplici le singole fattispecie che, ove ripetute nel tempo, e quindi denotate dal carattere dell’abitualità, possono integrare il fatto tipico previsto e punito dall’articolo 572 c.p., quali:
- ingiurie;
- percosse;
- atti persecutori;
- minacce;
- lesioni personali colpose lievi o lievissime.
Si tratta, dunque, di un reato:
- Abituale, poiché le condotte perpetrate sono di per sé lecite, ma assumono carattere illecito proprio in ragione del loro protrarsi e della loro ciclicità;
- Proprio, in quanto soggetto attivo può essere solo e soltanto colui che è legatoda un particolare vincolo nei confronti del soggetto passivo. Vincolo, quest’ultimo, che può promanare non solo da rapporti di natura familiare, ma anche da un rapporto di autorità derivante dallo svolgimento di una professione o di un’arte.
2. Il reato di maltrattamenti in famiglia e il mobbing.
In determinati casi, nel regime di operatività dell’art. 572 c.p. può trovare penale rilevanza l’istituto del cosiddetto mobbing, configurabile in ogni condotta vessatoria e denigratoria atta ad assurgere il lavoratore come mero prestatore di energie lavorative, con l’intenzione di indurlo a licenziarsi o comunque di rendergli particolarmente gravoso l’ambiente di lavoro.
Affinché il mobbing possa ricondursi nell’ipotesi del maltrattamento in famiglia, è necessario che l’ambiente lavorativo presenti natura para-familiare: deve, quindi, sussistere, una consuetudine di vita tra i soggetti, oppure la soggezione di una parte nei confronti dell’altra e un consistente grado di fiducia riposto dal soggetto più debole nei confronti del datore di lavoro.
Una circostanza tale non si ritiene configurabile nel novero delle imprese di medie o grandi dimensioni, ove, pertanto, le eventuali condotte vessatorie non saranno sussumibili all’interno della fattispecie del reato di maltrattamenti in famiglia, ma rimarranno confinate nel perimento giuslavoristico.
3. Il caso concreto.
La Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su una vicenda inerente alle condotte vessatorie poste in essere da un dirigente scolastico nei confronti di una docente, a seguito delle quali era intervenuto il trasferimento del dirigente presso un diverso istituto.
La Corte di Appello di Napoli, in merito all’episodio illustrato, negava la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia escludendo la natura para-familiare del rapporto tra maltrattante e maltrattata, sulla base delle notevoli dimensioni, in termini logistici, dell’istituto e della peculiarità del rapporto tra i due soggetti coinvolti.
4. L’orientamento della Corte.
La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, a seguito del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli nord, ha ritenuto il provvedimento impugnato esente dalle censure dedotte.
I giudici di legittimità, ribadendo il principio di diritto già largamente consolidato in giurisprudenza, hanno affermato che il cosiddetto mobbing può integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p. solo quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente si traduca in una situazione di affidamento quale quella naturalmente presente in ambito familiare.
Nel caso di specie, quindi, la Corte ha valutato:
- l’oggettivo dato dimensionale;
- la sindacalizzazione della struttura lavorativa;
- la circostanza che la persona offesa fosse lavoratore in servizio con contratto di pubblico impiego a tempo indeterminato;
ed ha ritenuto non sussistenti:
- la particolare situazione di affidamento di un soggetto debole nei confronti del garante;
- l’abitualità delle condotte;
- il dolo generico necessario per la configurazione del delitto in esame;
dichiarando, per tali motivi, l’inammissibilità del ricorso della Pubblica Accusa.